C’erano del resto altre modalità per opporsi al cambiamento ed erano peggiori di quelle dichiarate perché passavano per culture radicate. A Porciano, nel 1883, era giunta per insegnare nella scuola mista comunale la maestra Italia Donati, di Cintolese di Monsummano, dove era nata il 1° gennaio 1863. Tre anni dopo, il 1° giugno 1886, si suicidò gettandosi nella gora di un mulino di Leopoldo Torrigiani. Tra le cose ritrovate, una edizione del “Genoveffa” di Lamartine, storia di una fantesca, ridotta alla disperazione dalle calunnie, il suo “livre de chevet”. In una lettera ai parenti che firmava definendosi “maestra sventurata”, chiedeva fosse eseguita l’autopsia. Sarebbe servita a dimostrare la sua integrità e smentire così le chiacchiere artatamente messe in giro su una sua presunta gravidanza. In un messaggio al fratello si definiva “Infelicissima Italia che muore per l’onore”. E forse, involontariamente, in quel terribile frangente dipingeva un Paese che moriva di disonore. “Italiano” il fratello, “Italia” lei, quella famiglia era animata dalla fiducia nel Risorgimento e si trovava a misurarsi con le persistenze ancestrali dell’Antico Regime. Era la famiglia molto povera di un fabbricante di spazzole e parte delle 45 lire di stipendio servivano per l’affitto dei genitori.

Da maestra, Italia Donati era parte di quei drappelli di donne che avanzavano in un deserto per una concreta emancipazione femminile. In un altro biglietto definiva “infame” Porciano, reo della “infame” accusa. Non voleva le ragazze maldicenti al funerale e accettava soltanto i bambini e le bambine, “innocenti come lei”. Tale, infatti, era il carico di perfidia che l’aveva investita, una chiamata di correo per un Paese intero che aveva consumato il veleno, mettendo insieme le sordide ragioni personali di qualcuno, quelle politiche che intendevano coinvolgere il sindaco Leopoldo Torrigiani, avesse o meno provocato suggestioni con i suoi comportamenti, e una morale consolidata. Bella, “di forme scultoree, di personale alto, elegante, con un visino affilato e una grazia non comune”, scontava soprattutto la colpa di essere avvenente e moderna. Prima del trasferimento a Cecina le era stato fatto il vuoto intorno e perfino tante sue coetanee le avevano mostrato ostracismo. Insegnare in un posto diverso non era bastato e la falsa accusa di procurato aborto – messa in giro da un parente del Sindaco – le era addosso. .Rapidamente, il «Corriere della Sera» lanciava la sua inchiesta e Matilde Serao la sua denuncia per i tanti casi in cui maestre giovani e belle erano state costrette alla stessa sorte. Tardivamente il Consiglio comunale attestò l’innocenza della Maestra. Poi il «Corriere della Sera» aprì una sottoscrizione perché potesse essere sepolta a Cintolese, come desiderava. Il ministro della Pubblica Istruzione, Coppino, ordinò un’inchiesta, ma la risposta più grande venne dalla raccolta per la sepoltura e rappresentò l’unione di tante maestre e maestri e di tanti spiriti indignati contro la persecuzione e contro l’indifferenza.

Nessuno della zona in cui tutto era accaduto comparve nella sottoscrizione, ma la domenica 4 luglio in cui avvenne la traslazione, una folla ininterrotta fece ala al feretro, da Porciano a Cintolese, e il cronista la calcolò in 20.000 persone. C’erano carrozze dell’aristocrazia, e i cortei provenienti da tutta la Vallata confluirono in uno al confine tra Pistoia e Lucca. Al Cimitero di Porciano vollero agire soltanto i cittadini di Cintolese e non vollero becchini locali. Il parroco locale, Alessandro Betti non era presente e occorse forzare il cancello per mancanza di chiavi.

Passando da Lamporecchio, il corteo, con il prete di Cintolese, il “vecchio e buono” don Valentino Baldi, trovò le maestre con bande musicali e bambini e bambine vestite di bianco. A Cintolese c’erano le maestre di Cecina e di Lamporecchio, con piccoli scolari e “vezzose scolarette tutte inghirlandate di fiori e foglie di cipresso”. Con loro, le bande musicali di Monte Vettolini e di Monsummano, con le bandiere, tutti i maestri e le maestre del Comune, i Sindaci di Monsummano e Lamporecchio, le autorità scolastiche, cinquanta fanciulle vestite di bianco e bambini. Il discorso funebre fu tenuto tra le lacrime dal suo vecchio maestro, Giuseppe Baronti.

La lapide realizzata con la sottoscrizione, in lettere d’oro su pietra nera, fatta mettere dal Municipio in una cappellina, recava “A Italia Donati, maestra municipale a Porciano, bella quanto virtuosa, costretta da ignobile persecuzione a chiedere alla morte la pace e l’attestazione della sua onestà”. Occorreva davvero una lapide perché Italia Donati era una vittima del Risorgimento delle donne che ancora era da compiere.

FABIO BERTINI